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Un incontro problematico: il caso del "matto"

Facevo il formatore nel campo della formazione psicologica da non tanto tempo: ero, per così dire, un "giovane della professione", quando un importante ente privato di formazione professionale del riminese mi chiese, era un caldissimo mese di settembre, di realizzare un modulo di socializzazione e di "alfabetizzazione" relativa alle relazioni interpersonali e alle dinamiche di gruppo.

Il modulo era stato programmato per i primi tre giorni di lezione di un corso di formazione riservato ai diplomati di scuole commerciali, allo scopo del conseguimento della qualifica di addetto amministrativo del comparto turistico alberghiero. Le intenzioni del progettista, nel programmare il modulo di socializzazione, erano quelle di avviare una prima conoscenza tra i partecipanti e di sensibilizzare gli allievi ai meccanismi, alle procedure, alle comunicazioni, ai ruoli e alle norme che si strutturano, con l'andare della vita collettiva, in un gruppo di persone grosso modo coetanee, impegnate insieme in un processo di formazione.

Mi ero preparato con cura predisponendo, secondo uno stile di intervento orientato all'attivazione e al coinvolgimento del gruppo degli allievi, diverse unità di lavoro centrate da una parte sulla proposta di esercizi e giochi psicopedagogici finalizzati alla conoscenza e alla comunicazione vista nelle sue molteplici componenti, dall'altra sulla rielaborazione personale e collettiva di quanto sarebbe emerso dall'esperienza attiva. Gli interventi di carattere informativi erano limitati, nel mio programma, a brevi spot teorici pensati allo scopo di sistematizzare e chiarire meglio i ragionamenti degli allievi.

Il giorno concordato mi avviai verso i locali dell'ente con la speranza ed insieme la fiducia nelle sue capacità di chi tiene a fare una bella figura verso un nuovo ed importante cliente.

Quando entrai in classe chiesi agli allievi, erano quindici, di disporre i "banchi" secondo il perimetro di un grande quadrato, in modo tale che ciascuno potesse guardare in faccia tutti gli altri. Successivamente mi presentai dicendo il mio nome, la mia professione e il motivo per cui ero stato ingaggiato per intervenire all'interno del corso che i partecipanti si accingevano a frequentare. Al termine della mia presentazione, prima di chiedere agli allievi di fare altrettanto, proposi un "contratto formativo" basato sulla enunciazione da parte mia del programma che mi ero prefissato e sulla accettazione di questo da parte del gruppo; non omisi di lasciare uno spazio ai partecipanti affinché‚ questi esprimessero le loro aspettative e le loro richieste di modifiche di contenuti, tempi e metodi. Il mio progetto fu accettato in toto e incominciò il lavoro.

Dopo una minima presentazione formale da parte di ogni allievo proposi il primo esercizio, un semplice gioco psicopedagogico utile per approfondire un po' la conoscenza interpersonale. L'esercizio fu sperimentato con molta partecipazione e con una discreta apertura da parte di molti: il modulo incominciava nel migliore dei modi!

Quasi tutti avevano parlato quando, ad un certo punto, approfittando del suo turno, entrò in scena il "matto" (userò questo termine, senza offesa, per riprendere la definizione con cui gli allievi apostrofarono per qualche tempo il loro compagno). Per prima cosa, senza aprire bocca, il ragazzo si alzò e fece una passeggiatina lungo il perimetro del grande quadrato, alle spalle dei suoi compagni seduti. Quindi entrò al centro del quadrato e, tra la sorpresa e l'ilarità generale si mise a "gattoni" intraprendendo un secondo giretto a quattro zampe lungo il perimetro interno del quadrato. Ad un certo punto il ragazzo, sempre a mo' di cagnolino, si fermò col naso di fronte alle ginocchia di una avvenente ragazza cercando, con tutte le sue forze, di intrufolare il viso sotto le gonne della malcapitata, annusandone rumorosamente le intimità. La ragazza in un primo momento pietrificata dalla sorpresa, reagì con qualche calcio e con con un paio di ginocchiate ben assestate che produssero l'effetto di allontanare l'intruso. Il "matto" non si diede per vinto e passò, divertendosi pazzamente, ad ulteriori invenzioni quantomeno eccentriche.

Alzatosi in piedi, il ragazzo continuò la solita passeggiatina lungo il perimetro interno del quadrato dei banchi, lentamente, come soprappensiero. Tutto il gruppo osservava silenzioso e incredulo. Il protagonista della scena continuava a passeggiare. Improvvisamente, come colto da improvvisa folgorazione, il ragazzo, con un'espressione quasi contrita sul volto, incominciò a parlare ammettendo di essersi comportato male, chiedendo scusa a tutti, disse che però con la vittima delle precedenti, pesanti "avances" non si sarebbe scusato perché‚ a lei sicuramente era piaciuto; comunque era rammaricato con tutti e per rimediare avrebbe voluto fare un regalo in segno di amicizia. Frugò con cura tra le tasche del suo portafoglio e ne tolse una bustina che repentinamente aprì estraendone un profilattico che con grande velocità gonfiò soffiandoci dentro e consegnò ad un'altra ragazza seduta l accanto. Ovviamente, la seconda malcapitata reagì in maniera alquanto schifata buttando a terra il curioso dono. Il "matto" sembrava dispiaciuto del rifiuto. L'atmosfera era surreale, sembrava di essere partecipi di un sogno o di un film sulla follia; "Qualcuno volò sul nido del cuculo" pareva uno spettacolo di varietà al confronto.

Non sapevo bene cosa fare: una parte di me diceva di intervenire, di tamponare il "matto" in qualche maniera, usando la mia autorità di docente, l'altra parte mi diceva di aspettare, di non togliere al gruppo, che nel frattempo dava segnali di agitazione, l'opportunità di risolvere questo problema, la possibilità di gestire una situazione da subito difficile.

Mentre riflettevo su che cosa fosse meglio, il protagonista assoluto continuava a passeggiare, questa volta dietro le spalle degli altri, lungo il perimetro esterno del quadrato formato dai banchi. Ad un certo punto, giunto alle spalle di una graziosa e prosperosa compagna, il ragazzo passò decisamente a pesanti vie di fatto dedicandosi a conoscere approfonditamente dalle curve della compagna. Due o tre allievi, finalmente spazientiti, si alzarono afferrando il compagno, a quel punto ipereccitato, con il quale incominciarono una colluttazione soprattutto verbale finalizzata ad impedirgli di continuare la sua sceneggiata.

In quel centro di formazione professionale gli intervalli di met… lezione erano fissi e venivano annunciati dal breve suono di una campanella di tipo scolastico. Quando il litigio tra i ragazzi era appena cominciato, suonò la campanella e tutti gli allievi uscirono per la pausa-colazione.

Durante l'intervallo mi precipitai da chi coordinava il corso raccontando l'accaduto e chiedendo spiegazioni sul ragazzo, evidentemente disturbato. Il coordinatore, sorpresissimo, non sapeva cosa dire: era rimasto letteralmente senza parole. Dopo qualche secondo di immobilità, fu presa dal coordinatore la decisione di parlare con la famiglia dell'allievo. Venne chiamato il numero di telefono della famiglia, rispose il padre del ragazzo che parlò lungamente al coordinatore, dopo essere stato messo al corrente dei fatti avvenuti in aula.

Al termine della telefonata fui informato del fatto che il ragazzo era tornato dal servizio di leva da meno di una settimana e che facendo il militare aveva contratto un gravissimo esaurimento nervoso dal quale era uscito con una personalità disturbata e con una psiche assolutamente "fuori registro". Era stato curato a lungo con psicofarmaci e da qualche tempo sembrava ritornato come quando era partito per la leva.

Terminata la pausa, tutti gli allievi fecero ritorno in aula ad eccezione del "matto" che mezz'ora prima aveva salutato tutti dicendo: "ci vediamo più tardi"; in realtà non tornò né‚ quel giorno né‚ quelli seguenti. Nessuno seppe più nulla di lui per tutta la durata del corso.

Dedicai il resto della mattina a stimolare gli allievi ad elaborare la situazione e a farli riflettere sulle modalità di convivenza all'interno di quel gruppo (non si sapeva ancora della defezione del compagno) e sulla gestione delle diversità in una situazione collettiva.

Tutto continuò per il meglio. La giornata e l'intero modulo andarono molto bene. Gli allievi valutarono positivamente il mio intervento, comunicando al coordinatore giudizi davvero lusinghieri.

Io tornai a casa, l'ultima sera, un po' depresso, con un senso di insoddisfazione e con la sensazione di non aver lavorato propriamente al meglio delle mie potenzialità. 

Successivamente non mi È più capitata una esperienza simile. Ripensandoci qualche volta ho capito (l'ho imparato invecchiando nel mestiere) che sicuramente avrei potuto effettuare un intervento migliore durante quel seminario, ma la domanda sulla quale mi sono successivamente a lungo arrovellato senza risposta, continuando a prestare la mia professionalità a quell'ente, È stata: "ma chi avrà fatto la selezione di quel corso"?

 

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