Nessun individuo ha memoria di un evento unico e spettacolare della propria esistenza, ovvero, quello in cui è venuto al mondo.
di Anna Gloria Morolli*
La nascita è un episodio traumatico in sé; siamo stati estratti, dopo tanta fatica, da quel rifugio sicuro, amorevole ed accogliente da mani estranee, per essere poi catapultati in un luogo sconosciuto, fatto di suoni, luci, odori, ombre, che nulla ha a che vedere con il grembo materno dove eravamo coccolati.
La spiegazione a tale amnesia, secondo basi scientifiche, è da ricondursi alla neurogenesi. Il periodo che precede la nascita e quello immediatamente successivo è caratterizzato da una tempesta neuronale; i neuroni si generano e rimpiazzano freneticamente. Nascono e si sviluppano nuove cellule cerebrali e questo continuo ricambio non consentirebbe di mantenere il ricordo e neppure il suo formarsi in quanto la genesi di queste unità biologiche, così facendo, va ad invadere quegli spazi cerebrali che si occupano del ricordo.
Va inoltre detto che sembrerebbe più facile ricordare ciò che possiamo spiegare a parole visto che la “regione linguistica” del nostro cervello è in stretta relazione con la memoria.
Possiamo anche citare coinvolgimenti, che delineano la spiegazione del mancato ricordo alla e della nascita, che si rifanno a teorie mistiche legate alla religione, nonché credenze, se vogliamo, le quali sostengono che la causa è da ricondursi alla nostra anima, la quale non permette al corpo di accedere a determinate informazioni, appunto quelle del ricordo.
Facendo un passo indietro, siamo comunque nati, ora siamo al mondo e, nonostante la tempesta neuronale e di conseguenza la mancanza di quel ricordo, noi siamo e sappiamo di essere, fin da subito esseri sociali con un immediato ed innato senso di appartenenza.
Abbiamo già un ruolo che sappiamo distinguere da quello degli altri e soprattutto ci è ben chiaro che l’altro, appunto, è per noi qualcosa di significativo, ovvero colui senza il quale noi non potremmo sopravvivere, dal quale dipende il nostro benessere, la nostra cura, la nostra sopravvivenza e con il quale stabiliamo un rapporto affettivo immediato.
Siamo appena nati e sappiamo già un sacco di cose che nessuno ci ha insegnato, eppure non ricordiamo, non sappiamo parlare, ma riusciamo a comunicare, siamo una “macchina” perfetta.
Si vanno a delineare così aspetti importantissimi della nostra esistenza; questi sono i “primi passi” che muoviamo al mondo e di conseguenza dentro alla società’ che ci ha accolto.
La sociologia ci insegna che l’infanzia è un ambito esistenziale in costante sviluppo, è crescita, cambiamento e trasformazione, legato al corpo sotto il profilo fisico e biologico attinente trasformazioni ed evoluzioni, per cosi’ dire, naturali.
Lo sviluppo è centrale anche sotto l’aspetto psicologico quale evoluzione psichica finalizzata al raggiungimento di un equilibrio superiore e, notasi bene, secondo Jean Piaget, psicologo fra i più importanti che si è occupato di psicologia infantile, l’equilibrio dei sentimenti accresce con l’eta’.
Il concetto di processo di socializzazione, quale interazione sociale con un numero indefinito di collettività’ che prende avvio dal nucleo famigliare, si riferisce alla concezione evolutiva dello sviluppo e, in stretta connessione all’idea di processo di socializzazione, vi è quello di “bambino selvaggio”, ovvero colui che, cresce privato ed isolato dalla società’ con le conseguenti ripercussioni in termini connessi alla psicologia dello sviluppo e socializzazione.
Si può quindi dire che veniamo al mondo con un bagaglio innato che ci permette di sopravvivere. Siamo individui in continuo sviluppo che fin da subito poniamo le basi del nostro avvenire grazie al contesto sociale in cui siamo inseriti che è la nostra cartina tornasole, ci guida passo dopo passo, e ben consapevoli che, proprio per il fatto di non essere soli al mondo, noi abbiamo ottime speranze di vita e di opportunità.
Il concetto è che se privati dei consociati non possiamo avere aspettative di vita, ma una difficoltosa esistenza perché ogni individuo è funzionale all’altro.
Immaginiamo di aprire la porta di casa e di trovarci in un contesto deserto ed isolato senza vicini, persone che passeggiano, auto che circolano sulle strade, negozi aperti. Probabilmente se tutto questo fosse teatro di un sogno lo definiremmo come un incubo.
La solitudine e la privazione di relazioni umane non ci permette di sopravvivere.
Il neonato sa bene che, senza qualcuno che si occupi e prenda cura di lui, egli non potrebbe sopravvivere. Soggetti soli ed emarginati o comunque privi di interlocutori sviluppano nel tempo comportamenti che li inducono a parlare da soli.
Nella nostra esistenza “l’altro” è estremamente importante.
Gli altri sono il nostro specchio, gli altri “significativi” ci completano e sono coloro con i quali instauriamo un vincolo affettivo, un legame; gli altri sono essenziali e compresa l’importanza degli “altri” in generale, seppur nasciamo con un “bagaglio” che ci permette potenzialmente di essere perfetti, pare evidente come ci manchi qualcosa di estremamente importante, quel qualcosa che ci consente di rimanere “perfetti” nel corso della nostra vita e nelle relazioni umane con gli altri.
E’ quel qualcosa che dovrebbe impedirci di essere crudeli e scorretti con gli altri, che al contrario invece ci permetta di essere empatici, che siano semplici persone che incrociamo lungo la strada o che siano gli “altri significativi”, o semplici conoscenti, o colleghi di lavoro.
Non essere empatici con gli altri significa carenza di amor proprio.
Sostanzialmente gli altri sono la nostra proiezione, la nostra rappresentazione. Ci consentono di comprenderci meglio, in modo introspettivo di cogliere i nostri talenti e difetti, la nostra forza o debolezza, i nostri limiti, spigoli da smussare, potenzialità’ da esaltare, permettono di proiettare fuori quello che abbiamo dentro spesso in situazioni di conflitto o risentimento, ma anche in condizioni del tutto positive quali stima ed affetto.
Se una persona ci è fortemente antipatica, ci urta per qualche aspetto del proprio carattere o modo di fare, dobbiamo sapere che da qualche parte, infondo, quell’aspetto dell’altro che non ci piace e’ anche, probabilmente, represso dentro di noi.
Di certo non si ha l’illusione di poter immaginare un mondo fatto di persone perfette, sarebbe un’utopia, forse alquanto noiosa, una condizione di certo irraggiungibile ma..quanto ci sforziamo di “dare” sempre il meglio di noi stessi?
A chi non è mai capitato di avere contrasti con un’altra persona e, nel momento in cui, seppure per un istante, i muri si sono abbassati e le distanze accorciate, non si è sentito meglio?
Non riflettere sull’importanza che hanno gli altri per noi, e sul peso che i nostri comportamenti possono avere sugli altri, e’ l’evidenza che così perfetti, per come siamo stati “progettati”, non siamo.
Gli altri sono il nostro specchio e di riflesso nuocere agli altri significa nuocere, seppur indirettamente o inconsciamente, a noi stessi e questo non denota certamente l’intelligenza che dovrebbe contraddistinguerci dagli altri esseri viventi.
Queste righe non hanno la presunzione di insegnare agli altri come essere perfetti, empatici, buoni con il prossimo, altruisti, generosi, socievoli, perche’ potrei avere la pretesa di dare lezioni di vita solo se avessi tutte queste caratteristiche, ma, semplicemente, quando mi guardo allo specchio vorrei vedervi riflesso qualcosa di migliore.
E voi quando vi specchiate, che immagine volete vedere?
Anna Gloria Morolli, Dottoressa in Sociologia e Scienze criminologiche per la sicurezza, Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo.